Sempre più arrabbiati

Il prossimo punto di reset.

In alcuni nostri precedenti articoli, abbiamo sostenuto la simiglianza della situazione economica degli Stati Uniti in questo momento rispetto a quella dell’epoca Carter.

In un articolo di Jeff Cox, sulla CNBC americana, del 10 giugno, abbiamo scoperto essere d’accordo con noi l’ex segretario al Tesoro Larry Summers, che ha anche elaborato un paper con il quale raffronta le differenze dovute alla modalità di calcolo del Consumer Price Index (quindi dell’inflazione) di quel tempo rispetto ad oggi e conclude che, depurate dette diversità, la situazione è assolutamente consimile.

Il dato sull’inflazione americana pubblicato venerdì scorso, che ha fatto scendere ulteriormente le borse, prolungando l’effetto Lagarde di cui abbiamo già parlato, è dell’8,6% nel mese di maggio, il più alto dal dicembre del 1981.

Carter è ricordato come uno dei peggiori presidenti della storia recente americana e Biden rischia molto in tal senso.

L’inflazione si domina aumentando l’offerta rispetto alla domanda.

Per diminuire la domanda ci pensano i tassi, ma sappiamo (e speriamo) che tale aumento abbia un limite dovuto al livello di indebitamento globale.

Per aumentare l’offerta, è necessario risolvere problemi complessi: aumentare la produzione, risolvere i problemi della catena di approvvigionamento e limitare l’aumento dei costi energetici inondando il mondo di petrolio.

Ora, nella politica di Biden, invece che un sano incentivo alla industria petrolifera americana, favorendo la rinascita di tutte le aziende dello shale oil falcidiate dal crollo dei prezzi del petrolio di inizio pandemia, ci sono due linee politiche essenziali sul petrolio: la prima, liberare le forniture di greggio accedendo alle riserve strategiche nazionali, la seconda aumentare la produzione di fonti di energia alternative.

Tale politica è del tutto insufficiente ad affrontare la situazione attuale: il riequilibrio delle risorse strategiche dovrà essere fatto a costi di molto superiori a quelli di acquisto, e questo potrebbe addirittura ottenere l’effetto inverso, dal punto di vista inflazionistico.

Per quanto riguarda le energie alternative, il fine è nobile, ma occorreranno ancora 5-10 anni per ottenere risultati concreti e gli Stati Uniti e il mondo intero non possono reggere un tempo così lungo per dominare la crisi attuale e la recessione che dovremo fronteggiare.

Quindi, bene puntare sulle energie alternative, e l’Italia dovrebbe essere il primo paese ad avere bisogno di prenderne esempio, ma occorre anche un rimedio di più breve termine.

I crolli di borsa di giovedì e venerdì scorso sottintendono la consolidata consapevolezza dei mercati di fronte alla mancanza di focus della politica, resa così evidente dai numeri.

In realtà, i mercati sono arrabbiati con le banche centrali, americana ed europea in testa.

Con entrambe, per la tardività dell’intervento contro l’inflazione e per la contraddizione continua a cui ci hanno abituato da un anno a questa parte, con dichiarazioni e contro-dichiarazioni, dove il “transitoria e persistente” di Powell, riferito all’inflazione, è diventato il simbolo, insieme con l’aristocratico senso di vuota nullità ispirato dalla Lagarde, che al governo delle banche centrali senso di responsabilità e competenza non abbiano brillato.

Powell ha un’ottima opportunità, mercoledì prossimo, di cercare di recuperare fiducia, parlando chiaro. E Biden, a ruota, avrebbe un’ottima opportunità per adottare una politica più convincente di interventi sull’economia reale.

Per quanto riguarda i mercati della settimana, in Asia, gli indici azionari di Cina, Giappone e Hong Kong sono saliti e anche l’India ha tenuto abbastanza bene la posizione, con una piccola discesa nel fine settimana.

Viceversa, dall’indice ASX australiano, al FTSE di Londra, all’SMI di Zurigo, al DAX di Francoforte, al FTSE Mib italiano, all’IBEX spagnolo, fino agli indici americani, i risultati della settimana sono stati tutti molto negativi.

L’oro è stato in controtendenza rispetto all’azionario, recuperando di colpo più di 50 punti dal minimo di 1826.50. Non altrettanto ha fatto l’argento, manifestando una probabile divergenza tendenziale ribassista di entrambi i metalli.

Dove arriva l’S&P500?

Venerdì non ha bruciato quota 3900, fermandosi in chiusura sul supporto disegnato il 19 e 20 maggio.

Se continua a scendere (e obiettivamente la chiusura di venerdì è stata delle peggiori), il prossimo livello è 3800: dove ci sono montagne di put vendute sulla scadenza tecnica del 17 giugno a fare da sbarramento.

Se quella barriera, più probabilmente nella settimana del 20 giugno, o il 17 giugno pomeriggio, venisse rotta, si tradurrebbe in una potente accelerazione ribassista, dove vedere 3700, 3600 o 3500 diventa assolutamente possibile.

3475 è un livello algoritmico molto importante.

Se così fosse, le peggiori previsioni che vedono quota 3300 o addirittura 3200 come minimo dell’estate, forse in agosto, diventerebbero sinistramente possibili.

Un ritorno alla santificazione della FED farebbe un gran bene al mercato. Per ora non ne vediamo sintomi.

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Redazione Trading Intraday

P.S.: Dalle epoche di crisi come questa, si esce con una nuova epoca di rinnovamento. Parleremo presto di come vediamo la seconda metà degli anni venti.

Se ci segui da tempo, forse ricordi che vediamo un punto di reset nel 2024-2025, la fine dell’epoca iniziata nel 2007 con i subprime. A presto per parlarne ancora.

 

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